30 novembre 2021 | Francesca De Donatis
30 novembre 2021 | Francesca De Donatis
30 novembre 2021 | Francesca De Donatis
30 novembre 2021 | Francesca De Donatis
Il vertice sul clima, dall’ottica di una giovane professionista del marketing
L’urgenza collettiva delle tematiche affrontate nella Cop 26 di Glasgow, il più grande vertice internazionale delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico e la crisi ambientale, ha coinvolto oltre 30.000 delegati tra cui capi di Stato, esperti climatici, attivisti per concordare un piano di azione coordinato che ci consenta di agire tempestivamente prima che sia davvero troppo tardi. La responsabilità, l’accountability e l’impegno nel tema del climate change è quello a cui si lega la presenza delle principali big tech a Glasgow: Apple, Alphabet, Microsoft, Meta, Twitter… che hanno esposto i propri, rinnovati, programmi di corporate social responsibility.
L’obiettivo comune che fa da fil-rouge tra tutti i programmi di CSR (corporate social responsibility) è quello di mostrare chiaramente il proprio impegno nella carbon neutrality e nel ridurre a zero le emissioni di carbonio. Troviamo Apple, per esempio, che ha ridotto del 40% le proprie emissioni e che si impegna nell’avere dispositivi a zero impatto netto entro il 2030. Oppure il caso di Amazon che ha promesso di investire almeno due miliardi dollari in startup low-carbon; o ancora Google che fa dell’essere carbon neutral dal 2007 una bandiera e s’impegna a ridurre la propria impronta carbonica per giungere alle zero emissioni nette sull’intera filiera entro il 2030. E anche l’impegno di Microsoft si mette su questa strada alzando decisamente l’asticella dell’ambizione: mira non solo a risultare completamente carbon negative entro il 2030, ma anche a rimuovere entro il 2050 tutte le emissioni dirette e indirette di carbonio prodotte da quando è stata fondata, nel 1975.
Fridays for Future pre-COP26 Milano, Lombardy, Italy – Mænsard Vokser (CC BY-SA 4.0)
I piani verdi sono un ottimo modo per le aziende per mostrarsi partecipi, attiviste, coinvolte su uno dei temi più caldi del momento: il climate change. D’altra parte sono estremamente consapevoli della rilevanza di temi come sostenibilità e cambiamento climatico per i consumatori sempre più informati, esigenti e, soprattutto, attenti verso ciò che comprano. I criteri principali con cui scelgono un’azienda piuttosto che un’altra si riassumono in due: quanto viene fatto per l’ambiente e quanto viene fatto per minimizzare l’impatto inquinante. È ormai chiaro studiando i comportamenti di acquisto, soprattutto dei Millennials e della generazione Z, che l’aspetto economico non è più la sola e unica discriminante, ma le scelte di acquisto sono fortemente influenzate dalla concordanza con i valori del brand e dalla sua coerenza nel perseguirli con azione concrete. Tutto ciò si traduce in persone e mercati più attenti ai brand che hanno packaging plastic-free per esempio, o che hanno all’attivo iniziative di corporate social responsibility a sostegno di tematiche sociali attuali, come iniziative contro il gender gap o che hanno preso posizione su temi rilevanti di discussione pubblica come l’aborto o i diritti della comunità LGTBQ+.
Tuttavia la richiesta di una partecipazione così attiva da parte dei brand, li porta oggi a doversi difendere da due rischi molto ingombranti. Il primo pericolo è quello che il proprio impegno nelle tematiche ambientali venga percepito come un tentativo di greenwashing: neologismo nato dalla combinazione tra le parole green (il colore tradizionalmente associato all’ambiente e al movimento ambientalista) e whitewashing (imbiancare e, in senso figurato, dissimulare o nascondere qualcosa), si riferisce al tentativo dell’impresa di “tingersi di verde”, dichiarando di essere green anche quando invece non lo è nella realtà.
Il rischio è quello di essere accusati di utilizzare maliziose campagne di comunicazione e di green marketing, messaggi pubblicitari o in qualche caso iniziative di responsabilità sociale per coprire l’impatto ambientale, negativo o più consistente del previsto, delle proprie attività e dei propri prodotti. Sono numerosi i tentativi di aziende o brand di descriversi come eco-friendly: più attenti, sensibili e impegnati in questioni ambientali più di quanto lo siano effettivamente. Questa situazione è causata dall’assenza di norme che impongono alle aziende chiarezza e trasparenza non solo nel definire il proprio impegno ma anche, per esempio, nelle scelte linguistiche. Tra i tanti modi in cui si può fare greenwashing c’è un linguaggio vago e approssimativo o troppo gergale e tecnico da risultare incomprensibile ai non addetti ai lavori, oppure l’impiego di immagini suggestive, con prevalenza di tonalità di verde o di soggetti naturali che evocano un certo commitment del brand o del prodotto verso le questioni ambientali. Nei casi più evidenti, i brand fanno greenwashing mentendo sulle emissioni o l’impatto ambientale dei propri impianti. In ogni caso si tratta di un comportamento scorretto e con una posta in gioco molto alta, considerando il danno di reputazione che potrebbe seguire all’eventuale debunking di informazioni e proclami non veritieri.
L’altra emergenza che le big tech si trovano ad affrontare è quella del negazionismo climatico in rete. Per cercare di contrastare la disinformazione e il dilagare di fake news sulle piattaforme digitali che cercano di ridurre l’entità della crisi climatica e di manipolare le notizie, si stanno avviando degli hub informativi con l’obiettivo di rimandare gli utenti a fonti ufficiali e sfatare falsi miti anche grazie a delle etichette che segnaleranno le notizie che potrebbero contenere informazioni manipolate o controverse.
Mike Langridge (Attribution 4.0 International)
Tuttavia per poter parlare di un modello di business green è necessario che l’impegno verso la tutela dell’ambiente riguardi tutta l’azienda in ogni suo aspetto, a 360 gradi. Solo così una responsabilità sociale d’impresa che fa leva sulla salvaguardia del pianeta, può incidere sui processi produttivi, sulla logistica, sul punto vendita e sulle strategie di marketing, riuscendo a conformarsi alle normative che definiscono i valori limite di emissioni in atmosfera, il contenimento dei consumi energetici e le misure in materia di rifiuti. Ma ci sono aziende che cercano di fare di più: non solo si adeguano agli obblighi di legge ma si fanno portatori di consapevolezza verso la propria community.
La sfida per ogni azienda, piccola o grande che sia, è costruire una strategia di marca che possa giocare un ruolo fondamentale: deve essere coerente con il reale impegno dell’impresa che può inoltre sfruttare la propria influenza per incentivare il suo mondo a prendere parte alla causa. È necessario un coinvolgimento che parte dall’interno: una comunicazione interna che sappia indirizzare al comune obiettivo di sostenibilità i propri dipendenti, ma anche la scelta dei fornitori deve essere consapevole e tener conto dei principi di sostenibilità. La strategia di branding e lo sviluppo di una brand image green deve essere proporzionata al grado di impegno che l’azienda ha intenzione di riservare alla tutela ambientale. Tuttavia è indispensabile che la comunicazione esterna sia sempre meno pubblicitaria e sempre più concreta per essere una guida di nuove abitudini quotidiane più ecologiche e sostenibili.